giovedì 25 agosto 2011

LO SCIOPERO GENERALE DEV'ESSERE VERO. BLOCCARE L'ITALIA SINO AL RITIRO DELLA MANOVRA. TRASFORMARE L'INDIGNAZIONE POPOLARE IN RIVOLTA SOCIALE.

Nota di Marco Ferrando


Lo sciopero generale convocato dalla CGIL per il 6 Settembre è la registrazione del fallimento degli accordi impresentabili realizzati da Susanna Camusso con Confindustria, banchieri, CISL,UIL ( 28 giugno e 4 Agosto). Accordi vergognosi, dettati unicamente dall'ansia di un rientro nella partita della concertazione con le classi dominanti in vista di un ricambio politico di governo; accordi il cui unico ruolo è stato quello di spianare la strada al governo Berlusconi per un attacco frontale al mondo del lavoro e l'umiliazione della stessa CGIL.

Quanto è avvenuto non può essere certo “sanato” con la convocazione dello sciopero generale, tanto più in assenza di ogni bilancio e revisione di linea. Per questo i compagni del PCL in CGIL daranno battaglia per le dimissioni dell'attuale Segretaria nazionale e la convocazione di un congresso straordinario della Confederazione.

Naturalmente lo sciopero generale del 6 Settembre -attaccato da governo, Confindustria e PD- vedrà la piena partecipazione e sostegno del PCL. Ma tanto più oggi la proclamazione dello sciopero da parte della CGIL non può ridursi ad un atto rituale per salvare la faccia alla burocrazia confederale e le sorti della sua Segreteria.

Lo sciopero del 6 Settembre dev'essere uno sciopero vero. Deve puntare al coinvolgimento più vasto di forze per bloccare l'Italia ( produzione, trasporti, servizi, pubblica amministrazione). Deve combinarsi con l'assedio di massa delle prefetture e delle sedi confindustriali. Deve accompagnarsi ad azioni di contestazione di massa ai sindacati organicamente padronali e governativi di CISL e UIL. Deve rompere definitivamente con la linea degli accordi di luglio e di agosto, sancendo la piena autonomia del movimento operaio e sindacale dal padronato e dal PD. Deve soprattutto segnare l'inizio di una mobilitazione di massa, radicale e ininterrotta, sino al ritiro della manovra e alla cacciata del governo: una mobilitazione che unifichi attorno a sé l'enorme indignazione popolare e assuma i caratteri di un'autentica rivolta sociale contro la dittatura degli industriali, delle banche, del Vaticano.

E' ora che non solo le forme di lotta , ma gli stessi obiettivi del movimento operaio si elevino al livello nuovo della scontro imposto dalla crisi capitalista e dall'offensiva dominante.
Il debito pubblico ai banchieri non va pagato. Le banche vanno nazionalizzate, sotto controllo dei lavoratori. Le immense risorse così risparmiate vanno investite in lavoro, beni comuni, servizi pubblici. Va imposta la cancellazione di tutte le leggi di precarizzazione del lavoro, il blocco dei licenziamenti, la nazionalizzazione, sotto controllo operaio, di tutte le aziende che licenziano o violano i diritti sindacali. Va rivendicato l'abbattimento di spese militari, lussi istituzionali, privilegi Vaticani, come via di finanziamento di un vero salario sociale per i disoccupati che cercano lavoro. Va rivendicata un'Europa socialista dei lavoratori contro l'attuale Unione dei capitalisti e dei banchieri.
Il PCL porterà questo programma di svolta nello stesso sciopero generale del 6 Settembre e nelle manifestazioni di piazza che lo accompagneranno: dentro la battaglia più generale per un governo dei lavoratori quale unica vera alternativa.

Solo la forza di una mobilitazione vera, unitaria e radicale, può arrestare la valanga antioperaia, strappare risultati, capovolgere di segno l'intero scenario nazionale, aprire una nuova prospettiva politica.


Marco Ferrando

mercoledì 10 agosto 2011

BANCAROTTA DEGLI STATI O BANCAROTTA DEI LAVORATORI? ABOLIRE IL DEBITO PUBBLICO VERSO LE BANCHE

Documento di Marco Ferrando

(8 Agosto 2011)

BANCAROTTA DEGLI STATI O BANCAROTTA DEI LAVORATORI?
ABOLIRE IL DEBITO PUBBLICO VERSO LE BANCHE

La questione del “debito pubblico” domina lo scenario internazionale ed europeo. Il clamoroso declassamento del debito americano, in queste ore, ne è una riprova.
I circoli dominanti e i loro partiti presentano il nodo del debito come “questione tecnica” inerente alla oggettività “naturale” delle “leggi economiche”. In realtà si tratta di una grande questione sociale e di classe che svela la totale irrazionalità del capitalismo e le dinamiche della sua crisi.
Vediamo meglio.


LE ORIGINI DEL DEBITO PUBBLICO NEGLI ANNI 80

L'esplosione del debito pubblico ha come sfondo l'esaurimento del boom economico postbellico. Lo sviluppo economico del dopoguerra, trascinato prima dalla ricostruzione , poi dalle spese militari della guerra fredda, aveva consentito- sia negli Usa ,sia in Europa- una progressiva riduzione del debito pubblico accumulatosi durante la guerra. L'esaurimento del boom all'inizio degli anni 70 ( con la crisi recessiva internazionale del 74-75) mutò radicalmente il quadro. Per contrastare la caduta del saggio di profitto, il governo americano e i governi europei inaugurarono una politica economica di riduzione progressiva delle tasse sulle voci del capitale: rendite, profitti, patrimoni. Fu l'epoca del Reaganismo e del Teacherismo. Ovunque le classi dirigenti furono alleviate degli oneri di “responsabilità sociale”. Ovunque le classi subalterne pagarono di tasca propria il beneficio dei possidenti, con una prima compressione delle protezioni sociali acquisite, in varie forme, nel ciclo precedente. Queste politiche capitaliste furono del tutto incapaci di rilanciare una vera crescita economica capitalista. Ma furono capaci di concorrere al dissesto dei bilanci pubblici, che non a caso videro dagli anni 80 una diffusa impennata del debito.

LE BANCHE INVESTONO NEL DEBITO PUBBLICO

Come finanziare l'erario pubblico, nel momento in cui si dispensavano sempre più i capitalisti dallo spiacevole onere di pagare le tasse? In parte, come s'è detto, aggravando la pressione( anche fiscale) sul lavoro dipendente. In parte- ecco il punto- indebitandosi sul mercato finanziario. Cioè mettendo in vendita titoli di Stato a un determinato tasso di interesse e relativamente appetibili ( anche per i benefici fiscali spesso concessi ai compratori). Chi erano i compratori dei titoli di Stato? Certo anche piccolo borghesi, pensionati, fasce di lavoratori, che ancora disponevano negli anni 80 e nei primissimi anni 90 di un qualche risparmio da investire. Ma i maggiori compratori divennero sempre più, a partire dalla metà degli anni 90, i cosiddetti “investitori istituzionali”: grandi banche ( private e pubbliche), compagnie di assicurazione, imprese industriali, cordate finanziarie. Dentro un mercato finanziario sempre più allargato su scala planetaria dal crollo del Muro di Berlino, dinamicizzato dalle nuove tecnologie informatiche, sospinto dal quadro di perdurante stagnazione economica produttiva. Proprio così: contrariamente al diffuso luogo comune riformista che dipinge il liberismo e la finanziarizzazione come progressiva emarginazione dello Stato dall'economia, fu proprio il mercato dei titoli di Stato a contribuire significativamente alla espansione del capitale finanziario negli ultimi 20 anni. E con esso del debito pubblico.

LO STATO PAGA I BANCHIERI

Debito di chi verso chi? Questo è il punto rimosso ( significativamente ) dal dibattito pubblico. Eppure è il punto decisivo. Se è vero come è vero che gli acquirenti dei titoli di Stato sono sempre più i grandi potentati industriali e finanziari, il pagamento del debito pubblico si riduce al pagamento degli interessi alle banche, alle assicurazioni, ai capitalisti. La crescita del debito pubblico è solo la crescita del versamento di denaro pubblico nelle tasche delle classi sociali dominanti. Che per di più sono quelle già sgravate progressivamente dal pagamento delle tasse e dunque responsabili del dissesto dei bilanci statali. E chi paga dunque il pagamento del debito pubblico? Naturalmente le classi subalterne, quelle già gravate dal grosso del carico fiscale, con un nuovo carico di sacrifici.

CRISI CAPITALISTICA E DEBITO SOVRANO. CRESCE LA RAPINA AL SERVIZIO DELLE BANCHE

Questo meccanismo infernale ha ricevuto una spinta ulteriore e abnorme proprio dalla grande crisi capitalistica internazionale iniziata nel 2007.
Cos'è successo? E' successo che la crisi di sovraproduzione mondiale e il crollo della piramide finanziaria hanno scosso alle fondamenta il sistema bancario internazionale, a partire dagli USA. Gli stessi Stati e governi che per anni avevano cantato ( ipocritamente) le lodi del liberismo quando dovevano giustificare tagli sociali alla povera gente, sono accorsi precipitosamente al capezzale delle banche versando loro una massa gigantesca di risorse pubbliche: pagate da un nuovo e più pesante attacco a sanità, pensioni, istruzione, lavoro, ma anche da una crescita enorme del debito pubblico. Cioè da un nuovo massiccio indebitamento dello Stato presso banchieri e capitalisti. E qui viene il bello: larga parte dei soldi regalati dallo Stato a capitalisti e banchieri sono stati da questi investiti non in produzione e lavoro ( data anche la crisi di sovraproduzione), ma nell'ennesimo acquisto di Titoli di Stato, cioè nel debito pubblico.
Ecco allora la contraddizione esplosiva: da un lato i bilanci pubblici sono sempre più dissestati dall'aiuto statale ai banchieri; dall'altro i banchieri, acquirenti dei titoli di Stato ( coi soldi regalati dallo Stato) pretendono da quest'ultimo assoluta certezza di pagamento degli interessi pattuiti. E dunque una politica di maggiore“rigore” della finanza pubblica. Ecco ciò che si chiama “ solvibilità dello stato”: l'affidabilità dello Stato nel pagamento dei banchieri. E come fa lo Stato a conquistarsi tale affidabilità? Approfondendo sempre più la rapina sociale commissionata dalle banche contro i lavoratori e la maggioranza della società. Una rapina che oggi conosce, in America come in Europa, una drammatica intensificazione. Sotto i governi di ogni colore. E con un'ampia corresponsabilità bipartisan.

DEBITO PUBBLICO E UNIONE EUROPEA

La crisi del debito sovrano investe in particolare l' Unione Europea. Perchè qui la crisi economica si somma con la crisi politica dell'Unione.

E' vero: il debito pubblico europeo è mediamente minore, non maggiore, di quello americano o giapponese. Ma a differenza degli Usa o del Giappone, che dispongono di un unità statale e di una Banca centrale di garanzia, la U.E. versa in una situazione esattamente opposta. E la contraddizione tra una “moneta unica” e l'assenza di un unico Stato genera un quadro caotico proprio sul terreno finanziario. Tanto più sullo sfondo di una divaricazione strutturale progressiva tra gli Stati capitalistici centrali dell'Unione ( in particolare la Germania) e gli Stati periferici mediterranei.

Il caso Grecia ha semplicemente fatto da detonatore di questa contraddizione esplosiva. Non solo ( e non tanto) per l'insolvibilità di fatto del debito greco presso le banche francesi e tedesche, grandi acquirenti dei titoli ellenici. Ma per l'assenza ,che quel caso ha evocato, di un meccanismo generale di garanzia dei titoli di Stato in Europa e dunque per le banche che li possiedono.

Il cosiddetto “ Fondo europeo salva stati” ( cioè salva banche) che formalmente è stato predisposto( dopo un estenuante contenzioso interno), non solo non ha risolto il problema, ma l'ha riproposto al massimo grado. Sia per i tempi lunghi della sua operatività, sia per l'esiguità dei fondi a disposizione, sia per la discrezionalità dell'eventuale intervento ( chi decide?), sia per il (parziale) coinvolgimento nel salvataggio delle stesse banche private acquirenti dei titoli. Ciò ha spinto e spinge una parte consistente di istituti finanziari internazionali ( anche europei) a disfarsi dei titoli di Stato europei, per ripiegare altrove. E questo fatto genera due fenomeni complementari. Da un lato un calo di valore dei titoli statali, e quindi del patrimonio delle banche che li possiedono, con una ricaduta restrittiva sul credito alla produzione; dall'altro una crescita dei loro “rendimenti”, cioè dei tassi d'interesse a cui sono venduti: perchè aumentando il rischio dell'insolvibilità del venditore ( lo Stato), il compratore ( la banca) pretende un maggiore guadagno.

CRESCITA DEI “RENDIMENTI” E PRATICA LEGALE DELL'USURA

Come si vede la pratica criminale dell'usura è moneta corrente delle relazioni economiche capitaliste. Non solo non è condannata dalla morale dominante, men che meno dalla legge, ma viene addirittura elevata a legge naturale dell'economia e dunque a ragione della rapina antipopolare. Quante volte sentiamo ripetere in Italia che il rialzo dei rendimenti dei “nostri” titoli di Stato costringe a un più virtuoso “rigore” ( contro i lavoratori)? Il fatto che magari il rialzo dei rendimenti sia dovuto a vendite massicce dei titoli italiani da parte della Deutsche Bank viene accuratamente rimosso. Meglio accusare ignoti e fantomatici “speculatori”, o l'impersonalità dei “mercati”, piuttosto che il cuore di quella fraterna Unione per cui si chiedono tanti sacrifici agli operai. Resta il fatto che in tutta Europa, il pagamento del debito alle banche strozzine è diventata la bandiera di una nuova mostruosa rapina. L'unica Unione che i capitalisti europei e i loro Stati hanno saputo realizzare è quella contro il proletariato continentale al servizio delle proprie banche.


DEBITO PUBBLICO E CAPITALISMO ITALIANO

La crisi finanziaria in Italia è figlia della crisi europea.

Certo, la questione del debito pubblico in Italia ha radici specifiche e lontane, connesse con la storia dell'unificazione nazionale, col particolare retaggio del parassitismo clientelar/burocratico della prima Repubblica, con i privilegi secolari del Vaticano in Italia (anche in fatto di esenzione fiscale), col carattere patologico dell'evasione fiscale delle classi proprietarie . Ma queste antiche radici - anch'esse peraltro legate alle caratteristiche strutturali del regime borghese, e alla sua particolare conformazione nazionale - non possono cancellare l'attuale natura prevalente del debito pubblico italiano: un debito sospinto e riprodotto negli ultimi 20 anni dalla dipendenza crescente dello Stato verso il capitale finanziario, interno e internazionale. Un debito dominato dalle banche.

La propaganda dominante che attribuisce il debito pubblico all'eccesso di concessioni ai lavoratori e agli strati popolari ( “siete vissuti al di sopra delle vostre possibilità”) non solo è totalmente falso ma capovolge esattamente i termini della questione. E' stata proprio la progressiva defiscalizzazione delle classi proprietarie, pagata dal peggioramento delle condizioni di vita dei lavoratori, ad accompagnare strutturalmente la crescita del debito pubblico. Basta guardare l'evoluzione del regime fiscale in Italia negli ultimi 20 anni e la parallela redistribuzione della ricchezza a vantaggio di rendite, profitti, patrimoni. Detassazione delle classi proprietarie, aumento del prelievo fiscale sul lavoro dipendente, espansione della grande ricchezza immobiliare e finanziaria e sua concentrazione in poche mani: questi sono i dati che hanno accompagnato la crescita del debito pubblico. Perchè? Perchè il vuoto dei conti pubblici( nazionali e locali) aperto dalla detassazione del capitale è stato compensato dal ricorso sempre più largo dello Stato all'indebitamento verso le banche. Le quali, prima beneficiate dai tagli fiscali, poi beneficiate dal pagamento degli interessi sui titoli, hanno anche per questo allargato la propria presa sul grosso della società italiana e dei suoi gangli vitali, allargando il processo di accumulazione di ricchezza. La struttura “bancocentrica” del capitalismo italiano è oggi riconosciuta dalla stessa stampa borghese.

CHI POSSIEDE OGGI IL DEBITO PUBBLICO ITALIANO? LE BANCHE

Chi possiede oggi il debito pubblico italiano? Per il 50% banche, imprese, e istituti finanziari stranieri. Per l'altra parte banche, imprese, e assicurazioni italiane. Fuori da questi pacchetti proprietari restano davvero pochi spiccioli. Basta questo dato, pubblicamente riconosciuto, per capire chi intasca ogni anno gli 80 miliardi di interessi versati dallo Stato italiano sui propri titoli. Anche in questo caso è la detassazione del capitale ad aver finanziato il debito pubblico persino in forma diretta: i guadagni ricavati dal capitale grazie alle mille regalie fiscali dei governi di centrosinistra e centrodestra ( basti pensare all'enorme riduzione della tassa sui profitti industriali e bancari- dal 34% al 27%- realizzata dall'ultimo governo Prodi) sono finiti in parte nell'acquisto di nuovi titoli statali, e dunque nell'accaparramento di nuove risorse pubbliche. Il beneficio di classe ha finanziato la rapina di classe.

E lo stesso è avvenuto a livello di amministrazioni locali. Dove il taglio massiccio di trasferimenti pubblici dello Stato, (connessi al processo del cosiddetto “federalismo”), e l'esenzione fiscale delle classi proprietarie ( v. per ultima l'esenzione dell'ICI per le stesse abitazioni di lusso da parte del governo Berlusconi), hanno spinto i governi locali all'indebitamento sul mercato finanziario: sino a determinare la somma complessiva di circa 70 miliardi di interessi annuali da versare alle banche. Una somma quasi pari a quella versata dallo Stato centrale. E pagata com'è noto, anche qui, dal taglio sistematico dei servizi ( scuola, asili, trasporti locali..) oltre che dall'aumento di rette,tasse, tariffe.

LE RAGIONI DELLA CRISI ATTUALE DEL DEBITO ITALIANO

Perchè oggi il debito sovrano italiano è entrato in crisi? Perchè i “nostri” titoli di Stato sono investiti dalla bufera finanziaria internazionale? Per un insieme di ragioni di fondo. Tutte riconducibili, in ultima analisi, alla presenza del terzo debito pubblico del mondo ( 120% del PIL). Ma non riducibili a questo solo dato.

Il nuovo patto di stabilità europeo concordato nel marzo 2011 prescrive per l'Italia non solo il pareggio di bilancio entro il 2014 ( oggi anticipato), ma l'abbattimento di 900 ( novecento) miliardi di debito pubblico nei prossimi 20 anni ai fini del raggiungimento del 60% del PIL: significa ogni anno un'operazione finanziaria di 50 miliardi al netto del pagamento degli interessi sul debito. Questa operazione enorme di macelleria è già di per un'impresa titanica. Ma tanto più lo è in un quadro di particolare stagnazione produttiva ( l'economia capitalistica italiana è la più stagnante delle grandi economie europee), e alla vigilia di un possibile terremoto politico istituzionale interno ( connesso alla crisi della seconda Repubblica).

A ciò si aggiunge un particolare decisivo: a differenza della Grecia, del Portogallo o dell'Irlanda, che contano dopo tutto una massa debitoria relativamente modesta, e sono quindi passibili di “aiuto”, l'Italia registra un debito pubblico enorme in cifra assoluta ( 1800 miliardi a fronte dei 350 della Grecia) e un suo salvataggio sarebbe economicamente improponibile. Ma al tempo stesso un default dell'Italia- cioè della settima economia capitalistica mondiale- trascinerebbe con sé il crollo dell'Unione e dell'Euro, con un effetto domino sul sistema bancario internazionale.
Tutto questo eleva enormemente il “rischio” dei titoli italiani sul mercato finanziario. E dunque la pretesa di un rendimento più alto da parte delle banche strozzine creditrici. Ciò che determina a sua volta un ulteriore aumento del debito e del relativo “rischio”. Questa è la spirale che sta avvolgendo l'economia italiana.

CRISI DEL DEBITO PUBBLICO E CRISI DEI TITOLI BANCARI

C'è di più. E' vero che le banche italiane sono state meno esposte di altre sul mercato mondiale dei titoli tossici, e non sono coinvolte direttamente in bolle immobiliari esplosive come quelle spagnole. Ma è vero anche che sono molto esposte sul versante dei titoli di Stato di cui sono grandi acquirenti. Questo significa che un calo di valore dei titoli italiani si traduce direttamente in un calo patrimoniale delle banche. Mentre la crescita dei rendimenti dei titoli di Stato costringe le banche, per ragioni di concorrenza, ad alzare i rendimenti delle proprie obbligazioni, fonte primaria del loro autofinanziamento: il che significa una loro maggiore spesa di interessi proprio nel momento del loro indebolimento patrimoniale. La conseguenza di tutto questo è molto semplice: la crisi del debito sovrano trascina con sé la crisi dei titoli bancari italiani ( non a caso i più penalizzati dalle Borse). E la crisi dei titoli bancari si traduce a sua volta in un indebolimento del capitalismo italiano e della credibilità finanziaria dei suoi titoli di Stato sul mercato internazionale.

L'UNITA' NAZIONALE A SOSTEGNO DELLE BANCHE E DELLA LORO RAPINA

Ecco dunque la risultante d'insieme: i titoli di Stato italiani tendono a valere sempre meno e dunque a costare sempre di più alle banche acquirenti. E le banche, interne ed estere, pretendono come garanzia del loro “rischio”, cioè della solvibilità dell'Italia, una politica di massacro sociale ancor più severa e convincente. Tutta la drammatica stretta sociale e finanziaria di queste settimane, ( prima una finanziaria di 40 miliardi, poi il suo raddoppio di fatto in 10 giorni, poi l'anticipo del pareggio di bilancio deciso su pressione della BCE in 24 ore, poi ancora l'annuncio di nuove misure di rapina contro lavoro e pensioni..) sono solo l'affannosa rincorsa del ricatto usuraio delle banche e dei loro portavoce istituzionali. Oltrechè un cedimento alle pressioni dirette della BCE e dei governi francese tedesco, le cui banche sono molto esposte sui titoli italiani.

Il fatto che su questo signorsì ai banchieri sia scattata una grande unità nazionale tra governo e opposizioni liberali, e persino tra industriali e burocrazia CGIL ( sino alla scena umiliante di una Camusso rappresentata dalla Marcegaglia al tavolo col governo), misura solamente la comune subordinazione di tutti gli attori in commedia allo spartito del capitalismo italiano ed europeo. Il che non elimina contraddizioni interne e neppure possibili rotture tattiche ( anche per via del nodo politico irrisolto di Berlusconi). Ma chiarisce in modo definitivo che il pagamento del debito pubblico ai banchieri è la bussola attorno a cui ruota tutto l'universo politico dominante. Al di là di ogni confine di schieramento.

ABOLIRE IL DEBITO VERSO LE BANCHE: L'UNICA ALTERNATIVA REALE

Proprio per questo è necessario e urgente contrapporre alla bussola dominante un'altra bussola. Quella di un piano anticapitalista per uscire dalla crisi, che risponda unicamente alle esigenze del lavoro, contro gli interessi di Confindustria e banche. Un piano che chiami alla mobilitazione di massa straordinaria la classe operaia, la giovane generazione, tutti i movimenti di lotta. Un piano che abbia una radicalità uguale e contraria a quella dei piani padronali. Un piano che proprio per questo parta dalla rivendicazione elementare e unificante imposta dalla crisi: l'abolizione del debito pubblico verso le banche, interne e internazionali, sia a livello statale, sia a livello delle amministrazioni locali. In altri termini, il rifiuto di pagare gli interessi sul debito agli strozzini.

Non c'è altra soluzione. I capitalisti, i loro partiti, i loro governi, vogliono costringere alla bancarotta i lavoratori e i servizi sociali, per cercare di evitare la bancarotta del proprio sistema di sfruttamento. I lavoratori possono e debbono rivendicare la bancarotta dello Stato ( cioè il rifiuto di pagare gli usurai), per tutelare la propria condizione sociale e i propri diritti più elementari. Nessuna difesa del lavoro, della sanità della scuola pubblica, della previdenza; a maggior ragione nessuna rinascita sociale dell'Italia saranno realisticamente possibili, senza troncare il nodo scorsoio del debito pubblico. Cioè la dipendenza dalle banche. Solo questa misura potrà liberare una massa enorme di risorse pubbliche da investire nei beni comuni e in un grande piano del lavoro.

“Ma come faranno le banche a sopravvivere sul mercato” di fronte all'insolvenza dello Stato? Risposta: le banche dovranno essere nazionalizzate, senza indennizzo, e sotto controllo dei lavoratori, proprio per sottrarle alla logica del mercato, per unificarle in un unica banca pubblica sotto controllo sociale, che provveda al sostegno dei lavoratori secondo l'interesse pubblico, non alla loro rapina secondo l'interesse privato.

Ma cosa ne sarebbe dei “piccoli risparmiatori”? I piccoli risparmiatori sarebbero integralmente salvaguardati dalla banca pubblica, proprio all'opposto di quanto avviene oggi: dove la speculazione dei banchieri spesso travolge in primo luogo proprio i piccoli risparmiatori, più volte oggetto di truffe criminali ( Parmalat, Cirio, bond argentini..) da parte dei grandi azionisti delle banche private.

“Ma l'annullamento del debito pubblico e la nazionalizzazione delle banche non sono possibili nell'Unione Europea”. Se è per questo nell'Unione Europea dei capitalisti e dei banchieri non è “possibile” nemmeno tutelare il lavoro, la previdenza pubblica, i diritti sociali, come mostra l'esperienza pratica di ogni Paese. La verità è che solo il rifiuto dell'Unione delle banche e delle sue leggi può liberare le classi lavoratrici dalla dittatura del capitale finanziario e aprire una prospettiva nuova. Il rifiuto del debito pubblico e la nazionalizzazione delle banche vanno esattamente in questa direzione: quella di un Europa dei lavoratori. Del resto: è un caso che questa rivendicazione cominci ad affiorare in settori d'avanguardia del movimento operaio europeo o nel movimento degli indignati spagnoli?


GOVERNINO I LAVORATORI, NON I BANCHIERI: IN ITALIA,IN EUROPA,NEL MONDO

Il punto decisivo è un altro. L' abolizione del debito pubblico verso le banche e la loro nazionalizzazione sono incompatibili con la struttura capitalistica della società , con la natura dei governi borghesi di ogni colore, con le loro istituzioni internazionali, con la stessa natura attuale dello Stato. Non possono essere realizzate per via di una semplice pressione di movimento sui partiti dominanti, tutti legati a doppio filo al mondo degli industriali e delle banche ( e spesso presenti non a caso sui loro libri paga). Possono essere realizzate sino in fondo solo da un governo dei lavoratori, che ponga i lavoratori al posto di comando: da un governo che rovesci l'attuale dittatura degli industriali e dei banchieri per rivoltare da cima a fondo l'intero ordine della società capitalista, e costruire una società socialista. Una società che possa realmente decidere il proprio destino, senza dipendere dal gioco d'azzardo delle Borse, dall'anarchia del mercato, dalla legge del profitto.

Il nuovo acutizzarsi della crisi capitalistica, nel mondo, in Europa, in Italia, ripropone questa prospettiva rivoluzionaria come unica possibile via d'uscita.

Costruire in ogni lotta parziale il senso di questa prospettiva generale è il lavoro del Partito Comunista dei Lavoratori.


MARCO FERRANDO

BLOCCARE L'ITALIA

(6 Agosto 2011)

comunicato stampa PCL

Utilizzando la vergognosa sudditanza della CGIL verso industria e banche, il governo trova la forza di una dichiarazione di guerra alla maggioranza della società italiana. Venti miliardi di tagli sociali, liberalizzazione dei licenziamenti, privatizzazione di beni e servizi, revisione liberista della Costituzione, significano esattamente questo. Il fatto che ciò avvenga per mano di un governo del malaffare, per di più sconfessato dal voto popolare, misura l'enormità della provocazione ; ma anche la connivenza “tricolore” delle “opposizioni” parlamentari: che per conto dei banchieri italiani ed europei avevano richiesto pubblicamente, non a caso, una manovra “più rigorosa”.

Questa valanga non può essere arrestata con mezzi ordinari, ma solo da una straordinaria mobilitazione di massa che blocchi l'Italia sino al ritiro della manovra. Tutte le sinistre politiche, sindacali, di movimento hanno il dovere di realizzare il più ampio fronte unico di lotta contro il governo e l'intero fronte confindustriale, puntando apertamente alla sollevazione popolare: l'unico evento che possa cambiare alla radice l'agenda politica italiana. Fuori da questo scenario, il movimento operaio rischia un'autentica regressione storica della propria condizione.

PARTITO COMUNISTA DEI LAVORATORI

CONTRO L’OPPRESIONE DEL REGIME DI ASSAD PER LA RIVOLUZIONE SIRIANA

(3 Agosto 2011)

che da mesi, oramai, reprime nel sangue la voglia di cambiamento del popolo non si ferma davanti a niente. Pochi giorni fa i carri armati fedeli al regime hanno attaccato la parte est di Damasco ad Erbin ed ad Hama, decine i feriti e circa dieci i morti che si vanno a sommare alla innumerevoli vittime (150 i morti in poco più di 10 giorni) di questo continuo bagno di sangue. Ma nonostante la violenza espressa dal brutale governo di Bashar al Assad la popolazione siriana non ferma la sua protesta. In questi giorni la gente è scesa nella piazze della città di Lattakia, Homs e alcuni quartieri di Damasco chiedendo la cacciata del governo. La comunità internazionale ( ONU) sulla vicenda siriana, per usare un eufemismo, balbetta. Ad oggi le potenze mondiali si dividono, per le loro logiche di influenza geopolitica, in sostenitori del regime ( Cina e Russia) e chi vorrebbe un nuovo governo ( Usa, Gb e Germania) per poter far prevale la propria influenza su quel territorio.

La sinistra “radicale” italiana invece a riguardo della situazione siriana è ancora più divisa e contorta. Ferrero segretario del PRC fa appello alle nazioni unite ( dovrebbe far appello ai lavoratori siriani), come se le nazioni unite fossero una sorta di arbitrio internazionale che possa pacificare la tragedia siriana e le questioni sociopolitiche internazionali, altri come Diliberto tacciono forse anche a causa dei cordiali rapporti che il PDCI ha avuto in passato con Assad. In campo internazionale oltre la Cina e la Russia anche Chavez – fondatore del nuovo socialismo- sembra apprezzare il capo del governo siriano su di cui ha espresso lusinghiere parole…

IL popolo siriano spinto anche dal vento delle rivoluzioni magrebine è sceso in strada per chiedere migliori condizioni di vita ( tra cui la libertà democratica di espressione), l’unica possibilità che hanno i lavoratori, donne e studenti siriani di vincere è di cacciare questo oppressore è creare un governo dei lavoratori. Non vi sono vie d’uscita diplomatiche, non vi sono scelte di “campo” progressiste ( vecchia logica stalinista), ma c’è solo la rivoluzione.

Per la rivoluzione permanente in Siria!
Per un Medio Oriente laico e socialista!

Eugenio Gemmo D.N. PCL

SILENZIO GENERALE SUGLI SCANDALI VATICANI. DOVE SONO VENDOLA, DI PIETRO, E GRILLO?

(27 Luglio 2011)

SILENZIO GENERALE SUGLI SCANDALI VATICANI.
DOVE SONO VENDOLA, DI PIETRO, E GRILLO?

Negli ultimi giorni, la stampa borghese si è ampiamente concentrata sul tradizionale malaffare politico bipartisan: l'infinita girandola di mazzette, truffe, ruberie, mercimonio di incarichi pubblici, che percorre tutti gli anfratti della seconda repubblica, dell'apparato statale, dei principali partiti borghesi ( dal PDL al PD).
Anche per questo colpisce il parallelo silenzio che, con pochissime e imbarazzate eccezioni, avvolge gli scandali del Vaticano. Eppure emergono alla luce del sole, proprio in questi giorni, fatti clamorosi di criminalità clericale.

Non parliamo dell'ampio coinvolgimento degli interessi vaticani nelle speculazioni immobiliari della cricca di Balducci, Verdini attorno al business della “Protezione civile” e dei cosiddetti “grandi eventi”. Né parliamo della continuità dello scandalo internazionale della “pedofilia”, che pur vede oggi una clamorosa rottura diplomatica tra lo Stato irlandese e il Vaticano, ufficialmente accusato di coprire, tuttora, pratiche di stupri contro bambini. Parliamo invece di vicende forse meno appariscenti ma di certo non meno eloquenti.

Parliamo ad esempio della bancarotta dell'impero di Don Verzè, grande confessore del Cavaliere Berlusconi, ma beneficiato dalle regalie di denaro pubblico da parte di tutti i governi e tutte le amministrazioni locali ( da Formigoni a Vendola): un impero gigantesco, prosperato grazie al sostegno della finanza cattolica, beneficiato dal più impermeabile segreto contabile, e infine seppellito dal crollo del suo ambizioso grattacielo finanziario. Non è cosa da poco, persino dal punto di vista politico: dopo il tramonto del banchiere Geronzi, è il più duro colpo ricevuto dal giro capitalistico berlusconiano, e dunque un pezzo del declino del berlusconismo. Eppure,la notizia ha occupato lo spazio di un giorno, subito inghiottita dalla generale indifferenza. Neanche il suicidio del principale fiduciario di Don Verzè ( addirittura taciuto dall'Osservatore Romano) ha rotto l'incantesimo del silenzio. Lavoratori , contribuenti, piccoli risparmiatori non hanno diritto di sapere in quale giro di speculazioni e malaffare sono finiti i loro soldi ( si tratta cumulativamente di miliardi), girati gentilmente a Don Verzè da governi, banche, pubbliche amministrazioni di centrosinistra e centrodestra?

Ma il fatto più clamoroso è un altro. Riguarda la famosa scomparsa di Manuela Orlandi. La Stampa di Torino del 24/7 riporta l'intervista di un vecchio esponente di primo piano della banda criminale della Magliana ( Antonio Mancini) che per la prima volta rivela pubblicamente la complicità del Vaticano con la banda. Afferma che la banda aveva prestato ingenti somme al Vaticano, attraverso il Banco Ambrosiano di Calvi, e che poi queste somme non erano rientrate. Da qui il rapimento della Orlandi, figlia di un alto funzionario vaticano: una forma estrema di pressione e ricatto della banda per avere indietro dallo IOR ( banca vaticana, nota lavanderia di denaro sporco) i soldi dovuti ( 20 miliardi di lire). Questo prolungato braccio di ferro fu risolto dalla mediazione di Renato De Pedis, uno dei capi dalla banda, che ottenne dalla Chiesa, in cambio della cessata ostilità, la promessa della propria sepoltura nel sontuoso e riservatissimo cimitero vaticano di Sant' Apollinare. Dove in effetti il delinquente oggi riposa, in singolare compagnia dei “santi” e dei Papi.

Non è clamorosa questa rivelazione? Non scoperchia finalmente uno dei principali misteri irrisolti della cronaca nera italiana? I familiari di Manuela Orlandi non hanno diritto di conoscere le responsabilità e collusioni di alto livello che prima hanno condannato a ( probabilissima) morte la povera Manuela, e poi hanno segretato la inconfessabile verità del delitto?

Eppure regna sul caso una straordinaria riservatezza. Non solo giornalistica ma politica. Il Vaticano e i suoi crimini restano un tabù della politica italiana. Non solo di quella borghese. Ma anche della politica della “sinistra”. E persino del tradizionale giustizialismo. Il devoto Di Pietro, così facondo in fatto di denuncia del malaffare ( tranne quello che riguarda la IDV e la sua storia), tace ermeticamente sugli scandali vaticani. Come Nichi Vendola, sa bene che la benedizione di Oltretevere è decisiva per una buona carriera ministeriale. Ma persino il vulcanico Grillo- che pur non sembra ambire a ministeri- si arresta di fronte alla frontiera vaticana: essendo “oltre” la divisione tra destra e sinistra, ha deciso anche di essere “oltre” il vecchio confine tra laicità e clericalismo, e addirittura tra verità e omertà? Oppure teme più semplicemente di avventurarsi su un terreno troppo “imprudente” per le fortune elettorali del suo movimento?

Nei fatti si conferma una realtà inconfutabile: solo i comunisti rivoluzionari, proprio in quanto anticapitalisti , possono sviluppare una opposizione coerente al Vaticano, al capitalismo clericale, ai suoi crimini ( finanziari e comuni), senza alcuna paura e reverenza ipocrita.

PARTITO COMUNISTA DEI LAVORATORI

LA SECONDA REPUBBLICA E' FALLITA. SE NE VADANO TUTTI!

(21 Luglio 2011)

Rapina sociale e corruzione pubblica segnano la vera unità nazionale. Gli stessi partiti dominanti ( PDL e PD) che hanno varato o avallato- per conto dei banchieri- la più grande operazione di macelleria sociale degli ultimi 20 anni contro lavoratori, giovani, pensionati, sono attraversati da un malaffare disgustoso, che coinvolge con progressione dilagante le loro ramificazioni centrali e periferiche, sino a lambire i massimi livelli di direzione ( ministeri, segreterie di partito, rappresentanze parlamentari).

L'indignazione popolare è enorme. Le stesse classi dirigenti temono che esploda: e per questo si prodigano in mille modi o per confinarla sui binari dello sfogatoio web, o per limitarla alla pura protesta “anticasta”, o per indirizzarla a favore delle Procure ( Di Pietro). In ogni caso per disinnescarla. E per subordinarla alle convenienze elettorali o alle lotte di potere delle rispettive scuderie.

Il PCL si batte per una prospettiva opposta. Quella di un'autentica esplosione sociale, di massa e di piazza, per liberare l'Italia dalle sue classi dirigenti: industriali, banchieri, poteri Vaticani, e tutti i loro governi e i loro partiti. La seconda Repubblica è fallita. Il capitalismo è fallito. Solo la classe operaia, ponendosi alla testa dell'indignazione popolare e della domanda di svolta della giovane generazione, può fare davvero pulizia pulita di sfruttamento, corruzione, privilegi intollerabili.

Solo un governo dei lavoratori può ripulire l'Italia.

Preparare un vero sciopero generale prolungato sino al ritiro della manovra economica di rapina. Promuovere una marcia nazionale, operaia e popolare, su Palazzo Chigi e sul Parlamento, con la parola d'ordine “ Se ne vadano tutti, governo a chi lavora”. Porre all'ordine del giorno l'abolizione del debito pubblico verso le banche, la loro nazionalizzazione sotto controllo sociale, l'investimento delle immense risorse così risparmiate nella difesa e sviluppo di tutti i beni comuni ( lavoro, ambiente, sanità,istruzione, pensioni)...
Queste sono le necessità straordinarie imposte dalla profondità della crisi italiana ( sociale, politica, istituzionale). Il PCL si batterà per esse in ogni sede: sindacale, politica, di movimento.

Marco Ferrando